Parliamo di Mielofibrosi Primaria

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Dottor Alessandro Lucchesi

La Mielofibrosi Primaria è una patologia oncoematologica che appartiene al gruppo delle neoplasie mieloproliferative croniche, un insieme di malattie accomunate da un’aumentata produzione di cellule del sangue periferico (globuli rossi, globuli bianchi o piastrine). Le cellule staminali presenti nel midollo osseo percepiscono, a causa di complesse alterazioni genetiche, un continuo impulso alla crescita e di conseguenza la quantità di elementi figurati circolanti è destinata a un progressivo aumento.
La mielofibrosi primaria ha un comportamento peculiare: dopo una prima fase “pletorica”, che la rende simile alle altre neoplasie mieloproliferative, può portare a un progressivo abbattimento delle conte cellulari con conseguente comparsa di anemia e piastrinopenia. Ciò è dovuto ai fenomeni infiammatori, che richiamano all’azione i fibroblasti, i quali a loro volta trasformano il tessuto midollare funzionale in tessuto amorfo, cicatriziale.

Questa fase si caratterizza anche per il cospicuo aumento delle dimensioni della milza (splenomegalia) e del fegato (epatomegalia) e per la comparsa di sintomi progressivamente debilitanti, tra i quali una profonda stanchezza, la febbre, il calo di peso, i dolori articolari, le sudorazioni notturne, il prurito. Questi sintomi sono definiti “sistemici” o “costituzionali”, in quanto sono manifestazioni generalizzate e diffuse di una progressione clinica della malattia. La qualità di vita dei pazienti è quindi compromessa, frequente (e paradossale) è il ricorso alle emotrasfusioni. Vi è inoltre un incrementato rischio di occlusione dei vasi sanguigni (trombosi) e di evoluzione verso altre neoplasie ematologiche a decorso più rapido. Solo i soggetti più giovani – che raramente sono affetti da mielofibrosi – hanno la possibilità di ricorrere al trapianto di midollo osseo. Gli obiettivi terapeutici devono fondarsi, per la maggioranza dei pazienti, sul tentativo di riportare la malattia in condizioni di asintomaticità, facendola idealmente regredire alle condizioni d’esordio, invertendone la storia naturale.

La “macchina del tempo” per la mielofibrosi primaria è stata finora una chimera. Le terapie convenzionali, tra le quali i citoriduttori, gli steroidi e gli analoghi dell’eritropoietina, hanno rispettivamente contribuito a limitare la splenomegalia, le manifestazioni cliniche costituzionali e il ricorso alle trasfusioni di sangue. La risposta a tali trattamenti si è dimostrata tuttavia molto variabile, e di durata limitata nel tempo. La riduzione delle dimensioni della milza si accompagna a migliori condizioni cliniche generali: in alcuni casi non vi è alternativa all’intervento chirurgico o alla radioterapia. Inoltre, allo scopo di liberare il midollo osseo dalla “gabbia cicatriziale” e permettergli di far fronte allo stato anemico, sono disponibili prodotti come il danazolo (un ormone androgeno anabolizzante che stimola la produzione di globuli rossi) o la thalidomide (un farmaco immunoregolatore che agisce su diversi fronti, dai risultati forse più soddisfacenti).

Negli ultimi anni tuttavia, la ricerca scientifica ha fatto emergere alcune delle principali alterazioni genetiche alla base dell’insorgenza e della progressione di questa patologia, identificando quindi molti potenziali bersagli di farmaci innovativi. La mutazione del DNA che ha aperto la strada a un’entusiasmante sequela di successive scoperte, è stata quella del gene JAK2, imputato in alcuni meccanismi di proliferazione non controllata della cellula staminale emopoietica. La mutazione JAK2 Val617Phe produce una proteina che non è capace di interrompere il proprio lavoro di “stimolatrice”, ed è presente nel 50-60% delle mielofibrosi. La proteina mutata è divenuta l’obiettivo di nuovi preparati in grado di colpirla e inattivarla. Il capostipite di questi farmaci si chiama ruxolitinib, e sarà presto disponibile per molti pazienti e per i loro ematologi, con risultati promettenti. Oltre a ridurre il volume della milza (e di conseguenza i sintomi sistemici) piuttosto rapidamente, un recente studio ha infatti dimostrato i vantaggi in termini di sopravvivenza. Questi preparati non sono al momento perfetti, non sono scevri da effetti collaterali e l’eventuale prescrizione deve essere quindi valutata caso per caso. Nel frattempo, molti prodotti simili sono in fase di sperimentazione, e l’aumentare delle acquisizioni in ambito biologico-molecolare non fa che accrescere la lista di sperimentazioni cliniche, con l’augurio che presto anche la mielofibrosi primaria subisca la stessa lezione della leucemia mieloide cronica, che viene spesso citata come un successo della ricerca ematologica.

Alessandro Lucchesi