Altre patologie

La mastocitosi è una malattia di origine tumorale caratterizzata dall’eccessiva moltiplicazione e accumulo di mastociti a livello di uno o più tessuti dell’organismo.

I mastociti sono cellule che normalmente si trovano negli spazi intorno ai vasi sanguigni di quasi tutti i tessuti e contengono granuli ricchi di sostanze chimiche, come l’istamina, che vengono rilasciate in seguito a stimoli di diversa natura.

L’incidenza esatta della malattia non è nota (è una malattia spesso difficile da individuare e diagnosticare). Si stima che in Italia i casi di mastocitosi siano circa mille. Il sesso maschile e femminile sembrano interessati in eguale misura.

Nella patogenesi della malattia gioca un ruolo importante una mutazione (ovvero un’alterazione del DNA) a livello di un recettore (cKit), implicato nella moltiplicazione di alcune cellule, tra cui i mastociti. Non è una malattia ereditaria, quindi non si trasmette alla prole, anche se esistono rari casi di mastocitosi familiare, ovvero la presenza di più casi all’interno dello stesso nucleo familiare. Non è una malattia contagiosa.

Si distinguono principalmente due tipi di mastocitosi: la mastocitosi cutanea e la mastocitosi sistemica.

Nella mastocitosi cutanea l’accumulo di mastociti è limitato alla cute, senza interessare altri tessuti dell’organismo. La forma cutanea più diffusa è l’Orticaria Pigmentosa che è caratterizzata da macchioline più spesso brunastre, diffuse per lo più al tronco e agli arti e spesso pruriginose. Le due forme cutanee meno frequenti sono la Mastocitosi Cutanea Diffusa e il Mastocitoma Cutaneo.

La mastocitosi cutanea è la forma più tipica nei bambini, nei quali la malattia tende a guarire entro l’adolescenza nella maggior parte dei casi; quando invece è diagnosticata in età adulta generalmente non guarisce, anche se tende a rimanere stabile nel tempo e quindi a non peggiorare, permettendo così una buona qualità della vita.

Il sintomo che più tipicamente contraddistingue la forma cutanea è il prurito, disturbo che può essere lieve e tollerabile, ma che può diventare grave fino a essere incoercibile se il paziente non si sottopone a trattamenti specifici.

Nella mastocitosi sistemica invece, i mastociti patologici possono accumularsi a livello di diversi organi, con o senza interessamento della cute. Le localizzazioni più frequenti sono il midollo osseo, il tubo digerente, il fegato, la milza e il polmone, anche se potenzialmente la maggior parte dei tessuti dell’organismo può essere coinvolta.

All’interno della mastocitosi sistemica si distinguono forme con andamento molto diverso: la Mastocitosi Indolente, la Mastocitosi Sistemica con Associato Disordine Clonale Ematopoietico Non Mastocitario, la Mastocitosi Aggressiva e la Leucemia Mastocitaria. Di tutte queste, la forma indolente ha un decorso differente da tutte le altre, simile a quella cutanea, in quanto tende a rimanere stabile nel tempo, consentendo ai pazienti una buona qualità della vita e una sopravvivenza pressoché sovrapponibile a quella della popolazione sana.

Nelle altre forme, più aggressive, il decorso è spesso meno favorevole e la prognosi può essere infausta, anche a pochi anni dalla diagnosi, in quanto l’impegno degli organi da parte della malattia può arrivare a comprometterne il funzionamento in maniera molto grave.

I disturbi della mastocitosi dipendono dall’organo coinvolto e hanno una gravità che dipende dall’entità dell’interessamento (cioè da quante cellule patologiche infiltrano l’organo in questione). Ad esempio, l’accumulo di mastociti nell’osso può dare osteoporosi o lesioni litiche fino alla frattura , nel tubo digerente dolori addominali, disturbi della digestione, vomito e diarrea, nel fegato aumento delle sue dimensioni con la perdita di funzione, nel midollo osseo anemia, ridotto numero di piastrine, etc…

Tutti i disturbi appena descritti sono solitamente lievi nelle forme indolenti e più gravi nelle forme aggressive.

Oltre ai disturbi direttamente legati all’accumulo dei mastociti in un determinato organo, ne esistono altri legati al rilascio dai mastociti dei suoi mediatori chimici che possono agire localmente o a distanza. Questi disturbi possono verificarsi in tutte le forme di mastocitosi, sia sistemica che cutanea. Tra i più comuni sono descritti la cefalea, l’ipotensione, il flushing, il prurito, il dolore addominale, la nausea, il vomito. Particolare attenzione merita l’anafilassi, che include manifestazioni che vanno dall’orticaria (pomfi cutanei pruriginosi) fino all’edema della glottide e allo shock anafilattico, con rischio quindi di soffocamento e collasso vascolare.

Ogni genere di stimolo (microbico, chimico, fisico, emotivo, etc…) può essere la causa del rilascio dei mediatori chimici da parte dei mastociti. Particolare attenzione viene raccomandata nell’assunzione di farmaci, ragione per cui è importante fare riferimento al medico ogniqualvolta si debba assumere un farmaco o sottoporsi a esami con mezzo di contrasto. Esiste inoltre una lista di alimenti da assumere con precauzione. È importante prestare attenzione alle punture di imenotteri in particolare se il paziente frequenta ambienti di campagna.

La diagnosi di mastocitosi non è sempre facile. La biopsia della cute è fondamentale per diagnosticare la forma cutanea. Quando si sospetta una forma sistemica, tra gli esami più importanti ci sono la biopsia osteomidollare e l’aspirato midollare, in quanto nella forma sistemica il midollo sembra essere quasi sempre coinvolto. Un esame importante alla diagnosi e nel successivo monitoraggio della malattia è il dosaggio delle triptasi sieriche (enzimi rilasciati dai mastociti),
che può fornire un’idea della quantità dei mastociti patologici nell’organismo.

La terapia della mastocitosi distingue una terapia vera e propria della malattia dal trattamento che invece mira a prevenire, controllare e ridurre i sintomi e le complicanze legate alle sostanze rilasciate dai mastociti.

Riguardo alle terapie rivolte a controllare i sintomi e ridurre le complicanze si utilizzano farmaci che contrastano l’attività delle sostanze rilasciate dal mastocita, come antistaminici, antileucotrieni, stabilizzatori di membrana, etc…

Per il trattamento dei sintomi cutanei possono essere impiegati anche trattamenti a base di raggi ultravioletti che hanno una buona percentuale di successo anche se talvolta solo transitorio.

Importante in caso di osteoporosi è il trattamento con bifosfonati, vitamina D e calcio per prevenire il rischio di fratture anche gravi.

Importante non dimenticare che il rischio di anafilassi accomuna tutte le forme di mastocitosi per cui è consigliabile portare sempre con sé l’adrenalina autoiniettabile, che in alcuni casi può rivelarsi un vero e proprio salvavita.

Quella che abbiamo chiamato la terapia vera e propria della malattia invece, mira a distruggere ed eliminare i mastociti patologici. Generalmente sono solo le forme aggressive a richiedere questo tipo di approccio. Il trattamento di prima linea si fonda ancora oggi sull’impiego dell’interferone, associato o meno ai cortisonici, e della cladribina, chemioterapico ben tollerato. Negli ultimi anni sono stati messi a disposizione nuovi farmaci, gli inibitori delle tirosin-kinasi (TKIs), caratterizzati da un meccanismo d’azione molecolare mirato e selettivo, quindi molto diversi da quelli tradizionali, che sono stati utilizzati con grande successo nel trattamento di un’altra patologia ematologica, la Leucemia Mieloide Cronica.

Risultati di studi clinici riportati in letteratura mostrano dati contrastanti in merito all’efficacia dell’imatinib (Glivec), capostipite dei TKIs, che sembra avere successo solo in casi selezionati di mastocitosi. Altri TKIs successivi all’imatinib, ovvero il dasatinib (Sprycel) e il PKC412 (midostaurin) vengono oggi utilizzati per il trattamento della malattia, ma solo all’interno di protocolli sperimentali. Gli inibitori delle tirosinkinasi non consentono ancora risposte paragonabili a quelle ottenute nella cura della Leucemia Mieloide Cronica, ma ciononostante costituiscono un’alternativa terapeutica in alcuni casi di malattia non responsivi ai trattamenti tradizionali.

Tutte le terapie qui sopra descritte purtroppo non permettono ancora oggi la guarigione, ma mirano a contenere la progressione della malattia e ridurne le complicanze.

La ricerca scientifica in questo ambito nel frattempo continua, nel tentativo di identificare meglio le alterazioni che favoriscono lo sviluppo della mastocitosi e quindi mettere a punto terapie sempre più mirate ed efficaci.

A cura di Federica Grifoni, Ematologa

Con questo termine si indicano delle condizioni morbose in cui vi è una marcata riduzione fino all’assenza del tessuto emopoietico midollare. Ciò che ne consegue è una pancitopenia (anemia, neutropenia e piastrinopenia) che determina il quadro clinico dell’affezione: astenia, infezioni ed emorragie. Possono comparire a qualsiasi età , in qualsiasi sesso e in ogni razza.

La patogenesi dell’aplasia midollare è da ricercare in un possibile difetto intrinseco della cellula staminale emopoietica, in un danno del microambiente midollare e in un difetto immuno-mediato della proliferazione e della differenziazione cellulare. A favore di questa ultima ipotesi esiste l’evidenza di pazienti rispondenti a terapia immunosoppressiva ed una recente pubblicazione che suggerisce un deficit di cellule linfoidi T CD4+CD25+, simile ad altre patologie autoimmuni.

Vi sono forme idiopatiche (senza una causa apparente), forme secondarie dovute all’esposizione di fattori tossici (tossici industriali) o a farmaci, od a radiazioni ionizzanti. L’effetto può essere dose dipendente o non dipendente (idiosincrasica), ma una predisposizione genetica è stata presa in considerazione come concausa. Nella prima categoria rientrano tutte le sostanze tossiche come i derivati del benzene o le radiazioni ionizzanti che causano un danno nella replicazione cellulare; il farmaco cloramfenicolo può causare una alterazione reversibile della proliferazione midollare, ma può a volte danneggiare in maniera permanente e dare forme di aplasia prolungata. Nella seconda categoria rientrano diversi farmaci (sali d’oro, idantoina, etc) che possono causare sporadicamente forme di aplasia.

Tra le altre cause si ricordano anche le infezioni virali da virus dell’epatite C, che può determinare una aplasia anche a distanza di 40 settimane dall’avvenuta infezione.
L’effetto che queste cause possono provocare sono una riduzione del compartimento delle cellule staminali o una alterazione delle strutture cellulari che formano il microambiente.

Manifestazioni cliniche
L’esordio è molto variabile, con un possibile quadro acuto, con una astenia ingravescente, severe infezioni con febbre molto alta, con manifestazioni emorragiche cutanee e mucose.

L’esordio può essere anche molto più subdolo con mesi di sintomi a tipo astenia ingravescente, piccole infezioni recidivanti che tendono difficilmente a guarire.
Molto spesso la clinica delle aplasie midollari è simile a quella delle leucemie acute e solo le analisi di laboratorio possono chiarire la diagnosi.

Come si formula la diagnosi?
L’esame emocromocitometrico evidenzia severa anemia con reticolociti molto bassi; si evidenzia poi leucopenia con granulocitopenia e severa piastrinopenia.

L’aspirato midollare rileva un quadro generalmente non diagnostico, con una grave povertà di precursori emopoietici mieloidi e la presenza di cellule linfoidi ed istioidi.

La biopsia midollare è necessaria per osservare un quadro di insieme e valutare il grado di fibrosi presente, permettendo di formulare un giudizio su una diagnosi differenziale, con l’anemia di Fanconi e le sindromi mielodisplastiche. La prima può essere esclusa sulla base dell’esame cariotipico, perché presenta un numero alto di alterazioni cromosomiche. Le sindromi mielodisplastiche si possono escludere sulla base del quadro morfologico midollare e dell’esame cariotipico.

La prognosi delle aplasie midollari dipende dalla gravità dei sintomi presenti: si definisce aplasia non severa quella con numero di neutrofili > 500/mmc, severa se i granulociti sono inferiori a 500/mmc, se vi è una riduzione severa della cellularità midollare e se vi è una ipocellularità con una quota di cellule midollari <30%, molto severa se i neutrofili sono inferiori ai 200/mmc.

Terapia
Per la terapia si categorizzano in aplasie severe e moderate. Se l’aplasia è moderata (modesta citopenia, non trasfusione dipendente) la terapia è di supporto, con sostanze anabolizzanti, basse dosi di steroidi e ciclosporina. L’aplasia severa richiede invece un trattamento immunosoppressivo ed il trapianto di midollo.

L’urgenza con cui viene effettuata la terapia dipende dalla conta dei neutrofili e della durata della neutropenia severa. Il trattamento dipende anche dall’età del paziente: se il paziente è giovane (età inferiore ai 35 anni) con donatore compatibile viene avviato a trapianto di midollo compatibile; se il paziente è più anziano o con malattie associate viene generalmente sottoposto a trattamento immunosoppressivo. Dalle casistiche internazionali, i pazienti con età inferiore ai 20 anni sembrano giovarsi di più del trapianto allogenico; i pazienti con età superiore ai 20 anni e conta dei neutrofili tra 200 e 500/mmc sembrano beneficiare più della terapia immunosoppressiva.

Esistono terapie mirate a ricostruire l’emopoiesi assente o carente e terapie di supporto. Tra le prime ricordiamo sostanze stimolanti come gli androgeni, che stimolano le cellule staminali e che speso funzionano nelle forme meno severe; i fattori di crescita, che possono essere di aiuto nei casi di grave neutropenia, per la difesa dalle infezioni. Le terapie immunosoppressive, come i cortisonici, il siero antilinfocitario, la ciclosporina, agiscono contro il sistema immunitario attivato dell’ospite e spesso permettono di ottenere delle buone risposte ematologiche con ripresa dell’emopoiesi. Il siero antilinfocitario può essere usato anche in combinazione con androgeni o con ciclosporina e queste associazioni permettono di ottenere un maggior numero di risposte, ma non un vantaggio di sopravvivenza. Il tempo mediano per ottenere una risposta è 120 giorni e si possono individuare pazienti rispondenti completi (normalizzaione del quadro periferico) o parziali (perdita della dipendenza dalle trasfusioni). La terapia di attacco prevede siero antilinfocitario di cavallo insieme a ciclosporina: il siero deve essere premedicato perché può causare reazioni allergiche. La ciclosporina si continua mediamente per 6 mesi a dosaggio pieno e la sospensione dovrebbe essere graduale, perché è stato dimostrato che la lenta sospensione riduce le recidive. Queste ultime si definiscono tali, quando il paziente necessita di trasfusioni dopo un periodo di 3 mesi in cui era diventato indipendente. Le recidive sono nell’ordine del 30% e non sono facilmente prevedibili. L’uso dei fattori di crescita permette la facile identificazione dei rispondenti alla terapia con immunosopressione, ma l’uso è ancora motivo di discussione. Anche per i pazienti anziani è possibile una terapia immunosoprressiva, ma le percentuali di risposte dopo i 70 anni sono estremamente ridotte, anche se l’incidenza di mortalità è più bassa.

Il trapianto di midollo allogenico viene preso in considerazione se esiste la possibilità di un donatore compatibile e se l’età è inferiore ai 50 anni. Generalmente si usa come terapia di condizionamento la ciclofosfamide e i fattori prognostici positivi sono l’età inferiore ai 16 anni, un intervallo tra la diagnosi ed il trapianto minore di 83 giorni e un condizionamento senza terapia radiante. Per i giovani di età inferiore ai 16 anni che ricevono un trapianto da donatore identico familiare la sopravvivenza è del 91%; il trapianto di cellule satinali da periferico non è raccomandabile perché porta ad una riduzione della sopravvivenza per via dell’attivazione della graft-versus-host. L’età mantiene ancora il suo ruolo nel trapianto per l’aplasia midollare: infatti la sopravvivenza è intorno al 50% per pazienti di età intorno ai 40 anni. Nuovi regimi di condizionamento attualmente in fase sperimentale, prevedono l’uso di ciclofosfamide a basso dosaggio insieme alla fludarabina. Il trapianto da donatore non correlato mantiene gli stessi parametri prognostici con percentuali di sopravvivenza superiore al 70% in pazienti di età inferiore ai 14 anni.

La terapia di supporto prevede invece le trasfusioni e la profilassi delle infezioni. Le prime si eseguono filtrate ed irradiate per impedire che il paziente venga a contatto con eccessivi antigeni che ne provocano la sensibilizzazione: infatti il successo di un trapianto è direttamente proporzionale alla minore esecuzione di emotrasfusioni.
La terapia delle infezioni viene eseguita se indispensabile, tenendo conto che una terapia inopportuna eseguita per lungo tempo può selezionare ceppi batterici resistenti ed infezioni quindi molto gravi.

È una malattia rara, clonale legata ad una mutazione somatica del gene PIG-A nelle cellule staminali. Le cellule mature che derivano dalla staminale malata presentano dei difetti di membrana. Il clone coesiste generalmente insieme ad una popolazione emopoietica normale, ma in alcuni casi può costituire l’unico compartimento proliferante. Colpisce tutte le classi sociali e tutte le età, caratterizzata da emolisi intravascolare cronica e disturbi legati ad un cattivo funzionamento midollare.

Può evolvere, trasformandosi in anemia aplastica o in leucemia acuta. Sono stati descritti anche casi di guarigione spontanea.

Il danno è legato ad un difetto intrinseco del globulo rosso, estremamente sensibile in ambiente acido alla attivazione del complemento, perché carente di proteine di membrana come quelle riconosciute dagli antigeni CD55 (o DAF) e CD59 (o MIRL) ed il HRF. Sono stati riconosciuti anche deficit di fosfatasi alcalina nei neutrofili ed un deficit dell’antigene linfocitario LFA3, ligando del CD2. E’ un disordine acquisito, dovuto ad un deficit di alcune componenti della membrana del globulo rosso, in grado di controllare la fissazione sulla parete cellulare di alcune frazioni del complemento. Il difetto è legato alle mutazioni presenti sul gene PIG-A, gene che codifica per poteine che trasferiscono carboidrati alle proteine di ancoraggio della membrana del globulo rosso.

Si può presentare come puro disturbo emolitico o come parte di un’anemia aplastica. Nel primo caso l’esordio è molto spesso subdolo, caratterizzato da progressiva astenia e anemizzazione con subittero sclerale. A volte, invece l’esordio è con una crisi emoglobinurica (emissione di urine scure) con febbre, cefalea, vomito e dolori ossei. Le crisi emolitiche possono essere scatenate da stress psico-fisici, dal sonno, dalle infezioni, dalla terapia trasfusionale. La terapia con ferro può stimolare la produzione di cellule EPN+ che possono conseguentemente creare una maggiore emolisi.

Altre manifestazioni della malattia sono le trombosi venose profonde e le infezioni ricorrenti, più spesso dell’apparato respiratorio e delle vie urinarie. Le prime sono legate all’attivazione del complemento dovuta alla lisi dei globuli rossi che crea una maggiore aggregazione piastrinica; le localizzazioni classiche sono la trombosi delle vene sovraepatiche con sindrome di Budd-Chiari, la trombosi del seno sagittale con cefalea, vomito e possibile coma o trombosi/emorragie intestinali con dolori di tipo colico. Le infezioni possono essere severe legate ai difetti dei neutrofili e al disturbo macrofagico legato alla condizione di emolisi cronica.

A carico del sangue periferico si dimostra anemia, spesso ipocromica per mancanza di ferro, neutropenia e modesta piastrinopenia.

Nei casi caratterizzati solo da emolisi, il midollo spesso è in grado di compensare a pieno l’emolisi cronica e questi pazienti richiedono solo terapia con folati e con ferro. Nei casi più gravi, si possono associare anche basse dosi di steroidi anche se il loro uso cronico non viene considerato proficuo. Per i pazienti con forme aplastiche la terapia è mirata a ricostituire l’emopoiesi e si basa sulle trasfusioni di globuli rossi lavati (per impedire l’attivazione delle componenti del complemento) e sulla terapia marziale se vi è mancanza di ferro. Il trapianto allogenico è da prendere in considerazione in quelle forme con evoluzione aplastica o in soggetti con gravi e recidivanti manifestazioni trombotiche.

Attualmente in uso è l’Eculizumab un anticorpo monoclonale in grado di bloccare la proteina C5 del complemento, impedendo la formazione di prodotti attivi di tale sistema. Si è dimostrato efficace nel ridurre gli episodi emolitici e può ridurre il fabbisogno trasfusionale. Tre studi di fase III hanno valutato l’efficacia di tale farmaco, dimostrando una riduzione dell’emolisi dopo 1 settimana dall’infusione e continua risposta dopo 54 settimane di somministrazione continua. È stata osservata inoltre una riduzione della incidenza dei fenomeni trombotici.

Si ha una piastrinopenia quando il numero delle piastrine circolanti è inferiore alle 150.000/mmc. Soltanto però quando le piastrine scendono al di sotto di 20.000, vi può essere una sintomatologia emorragica con porpora cutanea, epistassi, gengivorragia, etc.

La soglia in cui compare sintomatologia emorragica però varia da paziente a paziente perché dipende dalla natura dei meccanismi piastrinopenizzanti, dalla concomitanza di fattori costituzionali e immunologici: esistono quindi condizioni in cui, anche se il valore di piastrine è solamente modicamente inferiore, vi può essere una importante sintomatologia emorragica. Esistono diversi tipi di piastrinopenia che si possono distinguere in base al meccanismo fisiopatologico che le determina.

Da ridotta produzione
Entrano in gioco tutte quelle patologie che determinano una riduzione del numero dei megacariociti. Vi troviamo quindi le piastrinopenie da aplasia midollare, in cui vi puo essere anche una riduzione di tutta la mielopoiesi; si riconoscono forme congenite ereditarie a trasmissione autosomica dominante, come la piastrinopenia legata al gene MYH9 (lieve o moderata piastrinopenia con megatrombociti); la macrotrombocitopenia mediterranea con lieve piastrinopenia, piastrine di volume aumentato, ma funzionanti; a trasmissione autosomica recessiva (piastrinopenia congenita amegacariocitaria, piastrinopenia con assenza del radio); a trasmissione legata al cromosoma X (sindrome di Wiskott-Aldrich, con piastrine con ridotta sopravvivenza, sintomatologia emorragica accompagnata d eczema cutaneo e tendenza alle infezioni. Tra le forme acquisite, le malattie con invasione midollare da parte di cellule neoplastiche, come le leucemie acute, determinano una riduzione della normale emopoiesi con conseguente pancitopenia periferica e quindi anche piastrinopenia; forme dovute a infezioni o farmaci.

Da piastrinopoiesi inefficace
I precursori piastrinici (megacariociti) sono normali o aumentati, ma la produzione delle piastrine è anomala e vi è quindi, una ridotta sopravvivenza piastrinica. Si può osservare in alcune malattie carenziali, come nei deficit di vitamina B12 o di acido folico, nelle sindromi mielodisplastiche.

Da aumentata distruzione
La causa può essere intrinseca alla piastrina, come nella sindrome di Bernard-Soulier, in cui vi è anche una importante piastrinopatia ma più spesso è estrinseca alla piastrina. Appartengono a questo secondo gruppo le piastrinopenie autoimmuni, che riconoscono un meccanismo patogenetico di natura immunologica. Infatti sono malattie acquisite con aumentata distruzione di piastrine nel sangue periferico ed un’ aumentata produzione di megacariociti a livello midollare. Si distinguono forme acute generalmente dovute ad infezioni virali più frequenti nei bambini o alla somministrazione di farmaci, e forme croniche. Nella forma acuta sono più evidenti i sintomi emorragici come porpora, epistassi e gengivorragia e si ha la guarigione nel 100% dei casi; la forma cronica, più frequente nel sesso femminile, ha un andamento cronico o recidivante con una storia di sintomi emorragici spesso solo cutanei e con crisi di acutizzazione emorragica in rapporto con la riduzione del numero delle piastrine. Il meccanismo in entrambi i casi è legato alla produzione di anticorpi contro la membrana piastrinica: i macrofagi vengono sensibilizzati dalle immunoglobuline adese alla parete piastrinica e fagocitano le piastrine. La forma “compensata” è una condizione di compenso tra lisi periferica e piastrinogenesi e si ha come forma di remissione delle forme croniche. La diagnosi si basa sull’esame emocromocitometrico, che evidenzia un basso livello di piastrine ed un aspirato midollare che dimostra un numero di megacariociti aumentato. La terapia si basa sull’uso di cortisonici o su nessuna terapia nelle forme con numero di piastrine superiore a 20.000-30.000. Nella forma cronica si usano cortisonici a dosaggi medi, a cui possono essere associati farmaci ad azione immunosoppressiva, quando non vi è una risposta terapeutica adeguata e la splenectomia nei pazienti non rispondenti o nelle forme recidivanti. Si ricorre alla trasfusione di piastrine solo eccezionalmente nei casi in cui vi sia una grave sindrome emorragica che pone a rischio di vita il paziente. Nei pazienti che devono essere sottoposti ad un intervento chirurgico, si infondono immunoglobuline ad alte dosi seguite se necessario, da infusioni di concentrati piastrinici. Recentemente è stato utilizzato il Rituximab (anticorpo monoclonale diretto contro il CD20) perché può bloccare il processo autoimmunitario, con risposte del 50-70% persistenti in circa la metà dei casi. Regressioni della piastrinopenia utoimmune sono state riportate anche dopo trattamento eradicante per l’infezione da Helicobacter Pilori. Esistono altre condizioni in cui vi può essere una piastrinopenia da cause immunologiche, come nel corso di malattie emolitiche autoimmuni o nel corso di connettiviti o nel corso di malattie linfoproliferative in genere nello stadio avanzato. Alcuni farmaci possono determinare una piastrinopenia di tipo immune, per l’adesione sulla piastrina di un complesso autoimmune formato da un anticorpo insieme al farmaco o ad un suo metabolita: la sospensione del farmaco è in questi casi indispensabile.

Da aumentato consumo
Dipende dall’aumentato consumo nel processo di formazione del trombo, come può avvenire nell’esteso quadro di coagulazione intravascolare disseminata o nel quadro di una porpora trombotica trombocitopenica o sindrome di Moschowitz. In quest’ultima vi è un’anemia emolitica, una piastrinopenia da consumo per la formazione di microtrombi e disturbi neurologici fluttuanti; è molto rara e colpisce il sesso femminile in età giovane. L’esordio è acuto, in genere non è riconoscibile una causa (forma idiopatica) o fa seguito ad episodi infettivi, vaccinazioni, trapianti, gravidanze, neoplasie, malattie del connettivo. I sintomi sono variabili perchè qualsiasi distretto con un microcircolo può essere colpito. Così si possono avere sintomi di diversi organi o apparati: sistema nervoso centrale con confusione, cefalea, parestesie, deficit sensitivi e motori; rene con ematuria, proteinuria e insufficienza renale; sistema gastroenterico, con dolori addominali; il sistema cardiaco può essere interessato con aritmie e insufficienza cardiaca. L’anemia è di tipo emolitico non immunologico, legata ad una distruzione di globuli rossi per via dei microtrombi che si formano (microangiopatica); la piastrinopenia può essere più o meno grave. L’eziopatogenesi non è ancora chiara, ma due sono le ipotesi formulate: un difetto ereditario o acquisito di ADAMTS13, una metalloproteinasi che lisa i multimeri ad alto peso molecolare del fattore Von Willebrand; questi non vengono scissi come di norma (nei malati di Moschowitz la percentuale di ADAMTS13 è inferiore al 5%) e si fissano sulla superficie delle cellule endoteliali, determinando l’adesione e la successiva aggregazione delle piastrine con formazione di trombi piastrinici. Nelle forme acquisite, vi possono essere nel plasma anticorpi diretti contro tale enzima (casi dovuti all’assunzione di farmaci come la ticlopidina, ma anche forme non legate alla produzione di un anticorpo, dovute verosimilmente alla riduzione temporanea di produzione dell’enzima. La terapia si basa su cortisonici a dosaggio elevato e nell’apporto di plasma in infusione continua o mediante plasmaferesi, per sottrarre al paziente con il plasma questi ipotetici fattori di attivazione.

Da distribuzione impropria
Rientrano in questa categoria tutte quelle forme caratterizzate da una milza notevolmente ingrandita che sequestra nel suo interno le piastrine (da ipersplenismo). Se la piastrinopenia è grave e sintomatica, la splenectomia è l’unico mezzo terapeutico efficace.

Sono difetti dovuti alla carenza di uno o più fattori plasmatici della coagulazione, congeniti o acquisiti. Tra le forme congenite ricordiamo:

A) Emofilia A
Compare solo nel maschio, perchè il deficit è legato al cromosoma sessuale X, ed è dovuto al deficit del fattore plasmatico VIII. Il deficit è solo della parte coagulante del fattore e può essere quantitativamente variabile, così da indurre quadri clinici diversi: nell’emofilia A grave il valore del fattore VIII è dello 0-2% e sono frequenti gli ematomi e gli emartri (emorragie delle cavità articolari) in età infantile spontanei più o meno gravi; emofilia A moderata, con una percentuale di fattore VIII del 2-5% ed emofilia A lieve, con fattore del 5-25%, in cui gli emartri sono rari e si hanno emorragie solo dopo interventi chirurgici. Le manifestazioni emorragiche più frequenti sono gli emartri, gli ematomi (versamenti ematici sottocutanei o muscolari), le emorragie del sistema gastro-enterico e uro-genitale, le epistassi (sanguinamento dal naso), le emorragie post-intervento chirurgico anche lieve (ad esempio le estrazioni dentarie). Le prove di laboratorio evidenziano allungamenti delle prove di coagulazione, ma la diagnosi si effettua solo dosando il fattore VIII.
La terapia si basa sulla terapia sostitutiva con il fattore VIII: le dosi dipendono dalla sede e dalla gravità emorragica in atto. I concentrati sono a vario grado di purezza o ricombinanti o prodotti purificati con anticorpi monoclonali. Gli emoderivati vengono purificati sottoponendoli a virus in attivazione con vari metodi come la pastorizzazione o l’uso di solventi/detergenti. I livelli di fattore VIII richiesti variano da 10-15 U/kg per emorragie lievi a 40-50 U/kg per emorragie gravi. L’emofilia A di grado lieve viene trattato con desmopressina, farmaco che permette il rilascio di fattore VIII dalle cellule endoteliali, se usato al dosaggio di 0,3 ?g ripetuto ogni 12 ore. La terapia si somministra per 1-2 giorni e la risposta è variabile da soggetto a soggetto. Nei pazienti emofilici si può utilizzare la terapia antifibrinolitica in casi di emorragie delle mucose.

B) Emofilia B
Anche questa è trasmessa geneticamente attraverso il cromosoma X, ma è molto più rara, con un quadro clinico sovrapponibile a quello dell’emofilia A. Il difetto riguarda il fattore IX. La terapia prevede la terapia sostitutiva con concentrati di fattore protrombinico, che contengono il fattore IX, la protrombina ed i fattori X e VII. La concentrazione raggiunta dal fattore IX con la terapia è solo il 50% di quella ì somministrata, quindi la dose necessaria è circa il doppio di quella prevista per l’emofilia A grave. Vista però la lunga emivita, è possibile somministrare solo una dose giornaliera. Sono attualmente in commercio concentrati di fattore IX altamente purificati o ricombinanti; questi ultimi richiedono dosi più alte.

C) Emofilia C
È ancora più rara ed il difetto, che riguarda il fattore XI è trasmesso come deficit autosomico recessivo. Le manifestazioni sono molto più rare e più lievi dei difetti precedenti, si hanno emorragie dopo interventi chirurgici e dopo traumi importanti.

D) Malattia di Von Willebrand
È un deficit autosomico dominante, caratterizzato da lievi emorragie cutanee e mucose, con diverse varianti. Il deficit è dovuto alla carenza più o meno variabile di una parte di fattore VIII che regola il legame della piastrina alla parete dell’endotelio dei vasi. Le manifestazioni emorragiche sono uguali a quelle di un difetto piastrinico, con epistassi, menorragie e gengivorragie. La terapia della emofilia è quella di somministrare il fattore carente, sotto forma di preparato commerciale contenente fattore concentrato, che si utilizza a vari dosaggi in base al peso corporeo del paziente ed in base al tipo di emorragia in atto. Nella sindrome di Von Willebrand si somministra DDAVP, che è un derivato sintetico dell’ormone antidiuretico, in grado di innalzare i livelli di fattore VIII di 3-5 volte. Nelle forme resistenti si somministra terapia sostitutiva con concentrati plasmatici di fattore VIII e di fattore von Willebrand. Esistono poi altre forme di coagulopatie congenite più rare, dovute a deficit di altri fattori che sono necessari nel complesso sistema della coagulazione. Sono deficit scoperti a volte a livello di intere famiglie, trasmessi per lo più come deficit di tipo autosomico recessivo, che richiedono una terapia sostitutiva. Questa si esegue solo nelle condizioni di gravi manifestazioni emorragiche. Ricordiamo il deficit di protrombina, il deficit di fattore V o il deficit di fattore VII.

Le coagulopatie acquisite dipendono da un deficit di sintesi epatica primitivo (gravi malattie del fegato) o secondario a deficit di vitamina K (che regola i processi di sintesi epatica dei vari fattori della coagulazione).

  • Deficit epatici

Sono ridotti i fattori VII, IX, X, XIII, fibrinogeno e protrombina. Anche altri fattori possono essere carenti, tra cui alcuni inattivatori dei processi di coagulazione che possono essere carenti; può esserci anche una piastrinopenia per il sequestro di piastrine dovuto alla presenza di una splenomegalia. Prevalgono le emorragie del sistema gastro-enterico e sono anche frequenti le epistassi, le ecchimosi e le emorragie post-intervento.

  • Deficit di vitamina K

Una carenza si può avere per un deficit di assorbimento o per l’uso di farmaci antagonisti, come nel caso dei farmaci usati per la terapia anticoagulante. Le manifestazioni emorragiche sono epistassi, ematuria, emorragie dal tubo gastro-enterico. La terapia consiste nella somministrazione di vitamina K per via parenterale.

  • Presenza di inibitori della coagulazione

Possono essere di due tipi:-specifici contro il fattore VIII, come si osserva in alcuni pazienti affetti da lupus eritematoso. -immunoglobuline mono- o policlonali diretti contro alcuni fattori, come nel caso di malattie autoimmuni o di sindromi linfoproliferative.

Coagulazione intravasale disseminata
Con questo termine si intende una sindrome emorragica e trombotica, a decorso acuto o cronico, legata a fattori esterni in grado di attivare i sistemi coagulativi, portando ad un consumo di piastrine e di fattori coagulativi. Tra le cause che possono scatenare un processo di questo genere ricordiamo: – liberazione in circolo di grandi quantità di sostanze estranee ad azione tromboplastinica (cioè in grado di innescare il sistema coagulativo), come in alcune patologie ostetriche, nelle ustioni estese o in alcune neoplasie (es. leucemia acuta promielocitica) – liberazione di sostanze tossiche provenienti dai batteri – complessi formati da antigene+anticorpo circolanti – shock – danno dei vasi Nella forma acuta abbiamo manifestazioni emorragiche, con sanguinamenti profusi, porpora, ematomi, epistassi, etc. e può essere a decorso rapido e fatale, mentre nella forma cronica il decorso è meno drammatico e la diagnosi è prevalentemente di laboratorio. La terapia consiste nella rimozione della causa e nell’uso del plasma fresco ed eventualmente (valutando la situazione) nell’impiego dell’eparina. Con la trasfusione di plasma vengono somministrati vari fattori coagulativi che possono essere carenti e anche gli inibitori fisiologici della coagulazione così da controllare la sintomatologia emorragica.

Le talassemie sono disordini genetici ereditari, nelle quali un difetto comporta la riduzione o la abolizione completa della sintesi di una o più catene della molecola dell’emoglobina. Questa è una proteina contenuta nei globuli rossi che trasporta l’ossigeno ai tessuti. Sono malattie comuni nei paesi del Mediterraneo, del Sud-Est Asiatico e dell’Africa Equatoriale.

Il meccanismo di trasmissione è autosomico recessivo e per tale motivo si ha una differenza di manifestazioni cliniche: se si eredita un solo gene da uno dei due genitori e si è quindi portatore eterozigote si ha una forma minima di talassemia detta minor; se si eredita il carattere recessivo da tutti e due i genitori si ha una forma grave di talassemia detta major con severe manifestazioni cliniche. Si può riscontrare inoltre una forma intermedia, meno grave della major con un minor fabbisogno trasfusionale e forme di portatori silenti, con difetto genico evidente solo in vitro e non in vivo.

Dal punto di vista genico distinguiamo diversi tipi in base alla catena globinica colpita dal difetto. Possiamo riscontrare pertanto:

  1. Alfa talassemia
    Per difetto genico di sintesi delle catene globiniche alfa, con un ampia gamma di manifestazioni cliniche che vanno dalla forma gravissima dell’idrope feto-placentare alla forma di portatore silente. Nella prima, dovuta alla delezione dei 4 geni alfa-globinici con conseguente sintesi di emoglobine patologiche (Hb Bart o Portland) si ha la morte intrauterina del feto dalla 25 alla 40^ settimana di vita, per una condizione di omozigosi. Nella forma eterozigote si ha un trait talassemico, con lieve riduzione dell’emoglobina, microcitosi e ipocromia dei globuli rossi (alfa-talassemia minor). Lo stato di portatore silente deriva dalla delezione di un solo gene globinico e non vi è nessun segno clinico o di laboratorio.
    Una forma intermedia, risultato di una doppia eterozigosi (delezione di 3 geni su 4) è la malattia da emoglobina H (formata da quattro catene globiniche beta, anziché da due beta e due alfa), che comporta un quadro di talassemia intermedia, con livelli emoglobinici intorno a 8-9 gr/dl, che può ulteriormente ridursi e richiedere un supporto trasfusionale in occasione di infezioni.
  2. Beta talassemie
    Diversi sono i meccanismi molecolari responsabili di queste forme, ma per la maggior parte sono dovute a mutazioni puntiformi. L’anemia è conseguente alla soppressione totale o parziale della sintesi delle catene globiniche beta con eccesso di produzione di catene alfa che portano ad eritropoiesi inefficace.

La patogenesi delle manifestazioni cliniche è legata principalmente all’eritropoiesi inefficace, perché l’alterata sintesi delle catene globiniche determina una morte intramidollare dei globuli rossi e dei precursori; si sviluppa così una iperplasia della popolazione eritroide, caratteristica di tale patologia. L’emoglobina normale viene sostituita da emoglobina F che ha un’alta affinità per l’ossigeno, creando un ulteriore stimolo a livello midollare per la produzione di globuli rossi. I pazienti talassemici vanno incontro ad un sovraccarico di ferro, in piccola parte legato all’aumentato assorbimento intestinale necessario allo stimolo continuo di produzione dei globuli rossi, ma soprattutto dovuto all’alto apporto di ferro con le trasfusioni.

Nella forma eterozigote, i pazienti sono asintomatici o hanno solo una modesta anemia, con un ampio spettro di quadri clinici intermedi, dovuti alla diversa espressione fenotipica del difetto genetico.

Generalmente tale condizione può rimanere inosservata o essere svelata in concomitanza di altri esami: vi è una modesta riduzione dell’emoglobina con una netta microcitosi. Non sempre tali alterazioni sono visibili, ma vi sono anche condizioni di portatori silenti, in cui non vi sono alterazioni emocromocitometriche, ma il difetto è visibile solo con analisi elettroforetica delle catene globiniche.

La forma omozigote, detta talassemia major o morbo di Cooley, è una forma di anemia estremamente grave, che si evidenzia già dopo pochi mesi dalla nascita con conseguente splenomegalia, per l’aumentata distruzione dei globuli rossi. Si evidenzia pallore e subittero già nei primi mesi di vita.

Il paziente deve essere curato con frequenti emotrasfusioni, che comportano però un costante e continuo sovraccarico di ferro in alcuni organi, come cuore, fegato e ghiandole endocrine, che vengono alterati nelle loro funzioni.

L’eccessivo incremento della popolazione eritroide midollare porta a delle alterazioni scheletriche permanenti, con ridotto accrescimento e disfunzioni ormonali.

Ulteriori complicazioni a cui possono essere soggetti i talassemici gravi sono le complicanze infettive, la calcolosi biliare e le ulcere malleolari.

Una corretta prevenzione con una precoce diagnosi prenatale, ha ridotto di molto l’incidenza di forme estremamente gravi. Una terapia trasfusionale appropriata continua e sequenziale con deplezione di ferro mediante farmaci (ferrochelanti) ha ridotto l’incidenza di complicazioni scheletriche e disfunzioni organiche, con un aumento significativo della durata di sopravvivenza e della qualità di vita.

Il trapianto di midollo allogenico nella forma omozigote è la terapia di elezione: fattori prognostici sfavorevoli sono l’età avanzata, il sovraccarico di ferro e l’esistenza di epatopatia. Se eseguito in età pediatrica porta alla guarigione di più dell’80% dei casi di talassemia major.

Si identifica come talassemia intermedia un gruppo di patologie eterogenee da un punto di vista clinico meno gravi della talassemia major, caratterizzate da un punto di vista laboratoristico da un’anameia importante (Hb tra 6 e 9 gr/dl) con splenomegalia progressiva. La terapia prevede la splenectomia e la terapia chelante e trasfusionale se necessaria.

È una condizione patologica in cui si accumula ferro in diversi organi, causandone un malfunzionamento. Esiste una forma primitiva, l’emocromatosi ereditaria, malattia genetica a trasmissione autosomica recessiva, il cui gene responsabile (denominato HFE) è localizzato sul cromosoma 6.

Sono riconosciute 2 mutazioni, ambedue per sostituzione aminoacidica: è possibile che esistano altre mutazioni non ancora riconosciute. La malattia si manifesta nel sesso maschile, intorno ai 40-50 anni: compare generalmente una sintomatologia sfumata con astenia, artralgie e dolori addominali. Successivamente compaiono i segni di insufficienza epatica con aumento delle transaminasi, epatomegalia, diabete e in fase avanzata cirrosi epatica, cardiopatia e atrofia testicolare. Una caratteristica colorazione brunastra della pelle accompagna la malattia.

Si conoscono forme ereditarie legate a mutazioni del gene per il recettore della transferrina (che lega la transferrina satura di ferro, che causa un danno prevalentemente epatico) o del gene codificante l’epcidina (proteina sintetizzata dagli epatociti in risposta al ferro assorbito, riducendo normalmente l’assorbimento di ferro intestinale; una alterazione di tale proteina determina danno epatico, ma anche cardiaco e gonadico precoce, in 1-2 decade di vita).

Gli esami di laboratorio che si eseguono per la diagnosi precoce sono il dosaggio della sideremia e della ferritina che risultano incrementate e la percentuale della transferrina totale che risulta incrementata.La biopsia epatica è generalmente indicata per la ricerca dell’accumulo di ferro, con colorazioni specifiche; la ricerca della mutazione genetica, con metodiche di biologia molecolare, completa la diagnosi. Il trattamento dell’accumulo di ferro si basa sulla ferrodeplezione: la rimozione del ferro si effettua mediante salassi terapeutici.

Nelle forme secondarie l’accumulo di ferro è dovuto alla terapia trasfusionale o a condizioni di eritropoiesi inefficace. In questi casi una opportuna terapia ferrochelante permette di ridurre i livelli di ferritinemia.

ANEMIE

Si definisce carenza di ferro una condizione con riduzione del contenuto di ferro del corpo al di sotto dei valori normali, causando un difetto di produzione dell’eme e quindi una riduzione della produzione emoglobinica.

Le cause sono da ricercare nelle perdite ematiche croniche dal tubo gastroenterico per ulcere, gastriti, diverticoli o neoplasie del tratto gastroenterico delle vie urinarie o respiratorie e soprattutto del ciclo mestruale nelle donne in età fertile o nelle carenze dietetiche, che riguardano tutte le età della vita, soprattutto i bambini durante l’accrescimento o nel ridotto assorbimento da resezioni gastriche molto estese. 
I sintomi sono a lenta insorgenza e quindi ben tollerati: affaticabilità, palpitazioni, cefalea e dispnea da sforzo e difficoltà di concentrazione, perdita dei capelli. Vi può essere una ridotta tolleranza al freddo e disturbi del comportamento con svogliatezza, facile irritabilità. Nella carenza di ferro grave si possono avere alterazioni delle unghie e delle mucose con stomatiti e glossiti, con difficoltà alla deglutizione (sindrome di Plummer-Vinson). Esami di laboratorio evidenziano una forma di anemia ipocromica, microcitica; spesso si può avere un aumento del numero delle piastrine. Si deve fare la diagnosi differenziale con altre forme di anemia ipocromica, con livelli di sideremia e/o ferritina normale o elevata come si può avere nelle talassemie (emoglobinopatie ereditarie) e soprattutto nell’anemia delle malattie croniche. La terapia deve prevedere la correzione di tutte quelle possibili cause che determinano la carenza di ferro (fondamentale è la correzione delle perdite eccessive con il ciclo mestruale utilizzando acido tranexamico dal 1° al giorno dopo la fine del flusso o nei casi in cui vi è l’indicazione agli estroprogestinici) e la successiva somministrazione di solfato ferroso per via orale. La risposta si inizia a vedere dopo circa 2 settimane con normalizzazione dopo 2-3 mesi. Generalmente dopo aver ottenuto una risposta, si continua la terapia per altri 3-4 mesi per ricostituire le riserve epatiche di ferro. La via parenterale si riserva solo ai casi di assoluta intolleranza al ferro per os (molto rara) o nel caso di pazienti con gravi alterazioni dell’apparato digerente e difficoltà di assorbimento.

È una forma di anemia iporigenerativa associata a patologie infiammatorie croniche: si riscontra in associazione con neoplasie (forme epiteliali o linfomatose), malattie infettive di varia natura (endocarditi batteriche, tifo, sepsi, infezioni polmonari croniche come bronchiectasie, ascessi) o patologie autoimmunitarie come le connettiviti (artrite reumatoide, lupus eritematoso sistemico).

Si tratta usualmente di una forma di anemia normocromica – microcitica, con bassa percentuale di reticolociti, iposideremia e iperferritinemia.
Si realizza per meccanismi patogenetici diversi: tra i principali la produzione di epcidina, proteina sintetizzata nel fegato in seguito a stimolo flogistico, in grado di ridurre l’assorbimento intestinale di ferro. In condizioni di flogosi cronica avviene anche l’iperproduzione di lattoferrina, proteina che compete con la transferrina, cedendo ferro ai tessuti e non ai precursori dei globuli rossi per la formazione di emoglobina. Alla patogenesi concorre anche l’inadeguata secrezione della eritropoietina in risposta allo stimolo anemico e la iper produzione di citochine ad attività soppressiva sul processo eritropoietico (IFN?, TNF?, IL6).
I sintomi di tale forma di anemia sono scarsi, l’esordio è piuttosto lento, mascherati dai sintomi della patologia di base: l’emoglobina è generalmente compresa fra 7-11 gr/dl, i reticolociti sono normali o lievemente diminuiti. Nell’esame del midollo vi è una assenza dell’iperplasia eritroide di compenso, che si osserva in altre forme di anemia e l’assenza dei sideroblasti ad anello. Vi sono segni evidenti di un aumento di ferro nei macrofagi midollari.
 È necessario fare diagnosi differenziale con l’anemia sideropenica (ma in questo caso la sideremia è bassa ma la ferritina normale), con l’anemia da insufficienza renale cronica e con l’anemia sideroblastica.
La terapia prevede la cura della patologia di base, la terapia trasfusionale e soprattutto l’eritropoietina.

Anemie megaloblastiche
Sono un gruppo di anemie caratterizzate da macrocitosi (aumento delle dimensioni cellulari) dei globuli rossi dovuta ad una alterata sintesi di DNA con ritardo di maturazione del nucleo e normale maturazione del citoplasma della cellula.

Sono dovute a forme carenziali di vitamina B12 e di acido folico; meno frequentemente sono legate a disturbi congeniti del metabolismo purinico o pirimidinico, o all’interferenza di farmaci citostatici che possono causare disturbi del metabolismo vitaminico.

I sintomi sono quelli delle anemie, con facile affaticabilità, astenia, difficoltà di concentrazione; tipici delle forme carenziali sono disturbi digestivi, con glossite, dispepsia e bruciori gastrici.

Si può avere subittero con tipico colorito cutaneo detto “a cera vecchia”; si può riscontrare inoltre modesta epato-splenomegalia e disturbi neurologici, con parestesie simmetriche e altri disturbi che vanno di pari passo alla gravità dell’anemia.

Esami di laboratorio: all’emocromo si rileva anemia macrocitica con reticolociti bassi e a volte anche leucopenia e piastrinopenia. All’esame del sangue venoso periferico si osserva una spiccata anisopoichilocitosi con presenza di megalociti, cioè cellule di dimensioni più grandi.

L’aspirato midollare evidenzia un midollo ipercellulare con prevalenza di cellule eritroidi bloccate nelle fasi immature della differenziazione (basofili).
Gli esami sierologici rilevano un aumento della bilirubina indiretta e della lattico-deidrogenasi.

Da carenza di vitamina B12
Le cause della carenza di vitamina B12 sono per lo più legate ad una dieta solo vegetariana, ad un malassorbimento da cause gastriche (anemia perniciosa, per condizioni genetiche autoimmuni con produzione di anticorpi anticellule partietali gastriche che determinano una atrofia gastrica, gastroresezione, infestazione da botriocefalo) e da cause intestinali (diverticolosi, resezioni chirurgiche, malattia di Crohn, etc.). Altre condizioni sono quelle metaboliche, molto rare e congenite in cui vi è un deficit selettivo nel metabolismo della vitamina B12. L’anemia perniciosa si associa a ridotta produzione di basi azotate puriniche, rallentamento della divisione cellulare e con glossite e ridotta sintesi mielinica con sofferenza neurologica.

Da carenza di folati
Le cause della carenza di folati, sono da ricercare nell’insufficiente apporto alimentare (ad es. gli anziani, per deficit di stato nutrizionale, alcolismo) nel malassorbimento (morbo celiaco, sprue tropicale), nell’aumentato fabbisogno (gravidanza, neoplasie, malattie ematologiche, malattie infiammatorie croniche) o nell’uso di farmaci antifolici (metotrexato, trimetoprim, anticonvulsivanti, neomicina, colchicina, antiblastici come l’idrossiurea, tioguanina, citarabina, 5-fluorouracile, vinblastina).L’anemia megaloblastica è meno grave rispetto a quella da carenze di vitamina B12 , vi può essere glossite, ma non i disturbi neurologici.

Il trattamento prevede una terapia di attacco con vitamina B12 e acido folico, intesa a ricostituire le riserve corporee e una successiva terapia di mantenimento. La risposta ematologica si ottiene generalmente dopo una settimana di trattamento (crisi reticolocitaria) e i sintomi migliorano dopo 48-72 ore.

Sono dovute ad una eccessiva distruzione dei globuli rossi, per cause intrinseche (il deficit è legato alla struttura del globulo rosso) o estrinseche (il danno viene solo subito dal globulo rosso).

I sintomi sono molto variabili a seconda della natura del disordine responsabile dell’accelerata distruzione del globulo rosso e dalla velocità con cui avviene questa distruzione: si possono infatti, avere delle situazioni di emolisi cronica in cui il midollo può compensare completamente l’emolisi e non vi è anemia, oppure di emolisi acuta con gravissima anemia. I parametri di laboratorio alterati sono sempre la conta reticolocitaria che risulta incrementata e la bilirubina indiretta anche essa aumentata. Altri parametri che completano il quadro laboratoristico sono: l’incremento della lattico-deidrogenesi, ipersideremia, iperplasia midollare eitroide e una riduzione dell’aptoglobina sierica se l’emolisi è extravascolare.

Tra i sintomi specifici, ricordiamo la splenomegalia e l’ittero (colorito giallastro della cute), che tipicamente, e a differenza delle epatopatie, non determina prurito. Si può avere calcolosi biliare, per l’eccessiva concentrazione di pigmenti biliari nella bile per l’aumentato catabolismo dell’emoglobina. Le crisi emolitiche si possono accompagnare a febbre, brividi, malessere generale, dolori lombari o addominali.

Nelle forme congenite si possono riscontrare alterazioni della struttura ossea e ulcerazioni croniche degli arti inferiori.

Tra le forme congenite da deficit intrinseco, ricordiamo:

  1. sferocitosi ereditaria: autosomica dominante, legata a deficit di proteine specifiche di membrana del globulo rosso (spectrina e anchirina), che determinano una forma dei globuli rossi molto simile ad una sfera (sferociti). Tale forma determina una minore deformabilità delle emazia nel passaggio attraverso i piccoli vasi con accorciamento della vita media del globulo rosso per intrappolamento nei sinusoidi splenici. La terapia prevede la splenectomia che migliora il grado di anemia e riduce le complicanze.
  2. ellissocitosi ereditaria: i globuli rossi hanno una tipica forma ellittica, dovuta al deficit di proteine della membrana cellulare. E’ a trasmissione autosomica dominante ed il difetto sarebbe nella sintesi della spectrina. Esistono forme latenti e asintomatiche compensate dalla iperattività midollare. La terapia delle forme conclamate è la splenectomia.
  3. enzimopatie: come il deficit di piruvico-chinasi o di glucosio 6 fosfato-deidrogenasi, enzimi che intervengono nel metabolismo glucidico, indispensabile per la sopravvivenza del globulo rosso. Nel primo caso, a trasmissione autosomica recessiva, la carenza enzimatica determina una minore disponibilità di ATP con conseguente emolisi; il quadro clinico è variabile, con emolisi cronica complicata da riacutizzazioni e la terapia è trasfusionale e chelante, con splenectomia solo nei casi più gravi.

Il deficit di G6PD è a trasmissione legata al sesso, molto eterogenea, in cui le emazia non sono in grado di riparare i danni ossidativi e si produce l’emolisi. Nella forma congenita ad esordio precoce vi è ittero neonatale grave, mentre nella forma giovanile vi è un quadro di emolisi cronica con riacutizzazioni legate a contatto con agenti ossidanti. Il fauvismo è caratterizzato da crisi emolitiche acute in seguito all’ingestione o al contatto con fave. La terapia prevede in caso di crisi una terapia trasfusionale.

Da deficit estrinseco:
possono essere provocate da agenti provenienti dall’esterno o da particolari condizioni del circolo e dei vasi (da frammentazione); particolarmente frequenti sono le forme autoimmuni, che possono essere suddivise in tre categorie, da anticorpi caldi, da anticorpi freddi e da anticorpi bifasici. Quelle da anticorpi caldi, sono dovute ad una immunoglobulina tipo Ig G attiva contro antigeni presenti sui globuli rossi del paziente. Possono essere primitive (forme idiopatiche) o secondarie a malattie linfoproliferative, a patologie autoimmuni od a neoplasie. Le forme da anticorpi freddi sono dovute ad una immunoglobulina Ig M e sono monoclonali (tutte uguali). Nel 90% dei casi sono dovute ad un disordine linfoproliferativo; più raramente sono secondarie ad una infezione da Mycoplasma Pneumoniae. Queste forme si mettono in evidenza con test di laboratorio (test di Coombs diretto e indiretto) che dimostra l’anticorpo. Le anemie a decorso acuto sono caratterizzate da febbre elevata, cefalea, dolore lombare, ittero ed emissione di urine color marsala. Gli esami di laboratorio evidenziano una bilirubinemia indiretta, una lattico-deidrogenasi elevata, un test di Coombs diretto positivo e la terapia prevede di ripristinare i valori di emoglobina, mediante somministrazione di cortisone e di immunosoppressori e nella risoluzione della causa scatenante.

Le anemie emolitiche croniche da autoanticorpi caldisono associate a connettiviti, a neoplasie come i linfomi o la leucemia linfatica cronica a cirrosi epatica. Hanno esordio subdolo con possibili crisi di riacutizzazione ed il quadro laboratoristico è simile a quello delle forme acute. Le forme da autoanticorpi freddi sono usualmente idiomatiche o talora associate a sindrome linfoproliferativa o epatopatia cronica; vi sono episodi di emolisi in seguito all’esposizione al freddo con cianosi delle estremità. La terapia è scarsamente efficace e si utilizzano gli immunosoppressori o la terapia trasfusionale in caso di pericolo di vita.

L’emoglobinuria parossistica a frigore (di Donath-Landsteiner) è associata come forma acuta alla sifilide o ad infezioni virali, causata da un anticorpo IgG bitermico. Si deve evitare l’sposizione al freddo e si ricorre agli steroidi o alla terapia immunosoppressiva.

Le anemie emolitiche da danno estrinseco possono essere legate anche ad agenti fisici per un danno meccanico alla superficie del globulo rosso (alterazioni del microcircolo per microtrombosi, valvulopatie meccaniche, ustioni). Vi può essere emoglobinuria e la terapia è la risoluzione della patologia di base. Le anemie da agenti chimici sono dovute all’esposizione ad alcune sostanze tossiche, come il veleno di alcuni serpenti, il trinitrotoluene, l’idrogeno arsenicate. Si possono identificare grazie alla presenza dei corpi di Heinz adesi alla superficie dei globuli rossi, tipici polimeri di molecole emoglobinichedenaturate. Anche alcuni agenti patogeni infettivi possono determinare anemie emolitiche come il Mycoplasma pneumonite, il citomegalovirus o le infezioni protozoarie.

L’anemia falciforme è un disordine genetico, legato ad una alterazione del gene che dirige la produzione di emoglobina. In particolare, il danno colpisce la catena beta dell’emoglobina e ne deriva una forma anomala denominata emoglobina S, per sostituzione di un residuo aminoacidico di glutamina con un residuo di valina .

Le molecole di emoglobina S tendono ad aggregarsi fra loro e formare dei filamenti all’interno dei globuli rossi. Questi globuli rossi deformati detti a mezza luna o a falce, sono rigidi e sono incapaci di scorrere all’interno dei piccoli vasi, creando occlusioni della piccola circolazione.

Il quadro clinico che ne deriva è molto variabile passando da una anemia emolitica cronica con crisi acute intercorrenti o un disordine lieve che si riscontra casualmente.

Gli eterozigoti sono asintomatici.

I disturbi principali della forma omozigote che si riscontrano sono:

  • anemia cronica: inizia già dal 3° mese di vita con livelli medi di emoglobina pari a 6-8 gr/dl. Vi può essere splenomegalia concomitante.
  • crisi falcemiche: con questo termine si identificano tutti gli eventi acuti e sono di quattro tipi.
  1. crisi dolorose vaso-occlusive, la cui frequenza varia da paziente a paziente e non si accompagnano a diminuzione dell’emoglobina. Colpiscono le estremità (sindrome mano-piede) con tumefazioni del dorso delle mani e dei piedi per occlusione del microcircolo.Possono essere colpiti i piccoli vasi delle ossa lunghe e/o delle vertebre o le strutture vascolari peri-articolari.
    Una delle complicazioni più pericolose è la sindrome polmonare acuta per infiltrati polmonari legati ad occlusione dei piccoli vasi, che si manifesta con febbre elevata e leucocitosi. Inoltre un 8% dei pazienti può avere un accidente cerebro-vascolare (ictus), a causa dell’occlusione dei capillari del circolo cerebrale.
  2. crisi ematologiche, caratterizzate da un rapido peggioramento dell’anemia; si distinguono in crisi aplastiche, risultato di infezioni virali intercorrenti e in crisi emolitiche.
  3. crisi di sequestrazione, con aumento improvviso del volume della milza, dolori addominali e vomito.
  4. crisi infettive, i pazienti affetti da drepanocitosi sono più esposti alle infezioni, soprattutto da streptococco.

La diagnosi di tale malattia si basa sull’identificazione elettroforetica dell’emoglobina S e sul test di Itano-Pauling al metabisolfito che provoca falcizzazione; è importante anche la prevenzione, informando entrambi i genitori eterozigoti per la mutazione che possono avere il 25% di possibilità di avere un figlio omozigote con una malattia severa.

Nessuna terapia è in grado di risolvere completamente la malattia e si usano misure profilattiche (evitare condizioni che generano la crisi, quali il freddo, l’acidosi o la disidratazione) e misure di supporto (il riposo, i fluidi e gli analgesici).

Da qualche anno si usa l’idrossiurea, un farmaco citostatico utilizzato in altre patologie oncoematologiche, perché aumenta la concentrazione di emoglobina fetale F.

Questa, che normalmente non viene più prodotta nell’adulto, è in grado di ridurre la percentuale di emoglobina S e limitarne i danni; si è visto che, l’uso periodico, diminuisce l’intercorrenza delle crisi dolorose e limita il rischio di complicanze infettive.

Una possibilità terapeutica, come in altri tipi di emoglobinopatie, è rappresentata dal trapianto di midollo osseo allogenico. Il trapianto, non scevro di pericoli, porta alla cessazione dell’emolisi e delle crisi dolorose e si prende in considerazione in base alle condizioni sociali del paziente, all’area geografica e dove non è possibile mettere in atto una terapia preventiva.

È una forma di anemia normocromica associata ad insufficienza renale cronica con deficit di produzione di eritropoietina e accorciamento della vita media dei globuli rossi.

Si può associare ad una carenza marziale in caso di perdita ematica cronica dalle vie urinarie.

Infatti se vi è un quadro cronico di pielonefrite, l’assetto marziale è identico a quello delle malattie infiammatorie croniche. La terapia prevede la somministrazione di eritropoietina.

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